MILANO. Il Maestro Ercole Pignatelli riceve Vittorio Schieroni nel suo studio milanese, ricco d’arte, di emozioni, di vita. Leccese, classe 1935, lo spirito e l’energia di un ragazzo, Pignatelli racconta l’inizio del suo percorso artistico lungo e ricco di successi, momenti della sua storia personale e professionale, il suo modo di fare arte.
Intervista di Vittorio Schieroni
Direttore ARTSTART
Vittorio Schieroni: Maestro Pignatelli, a breve uscirà per Editoriale Giorgio Mondadori di Cairo una tua autobiografia dal titolo “Metamorphosis”. Come è nato il progetto di raccontare in un libro la tua vita e il tuo percorso artistico?
Ercole Pignatelli: Non mi aspettavo di arrivare a questa età senza aver scritto un’autobiografia. Me lo suggerì un giorno Giuseppe Lezzi di M77 Gallery, con il quale per anni ho avuto rapporti contrattuali, parlando delle varie amicizie con De Chirico, con Fontana e con tutti questi personaggi meravigliosi che purtroppo non ci sono più, e così è partita la prima idea e ho cominciato a raccontare.
Quando e come è iniziato il tuo percorso artistico?
Ho iniziato a dipingere a sette anni, mentre la prima esposizione è stata a quindici al Premio Marzotto a Roma. Arrivando a Milano nel novembre del 1953 a diciotto anni, quando Milano era Milano, la città che mi piaceva e che ora non c’è più, vidi fuori dalla Stazione Centrale lo striscione di Picasso a Palazzo Reale, dove nella Sala delle Cariatidi è stata esposta “Guernica” ed io mi sono goduto per tutto il mese Picasso: questa mostra è stata per me memorabile. Quando sono arrivato a Milano non sapevo dove andare a dormire, ma grazie a un annuncio sul Corriere della Sera trovai un letto in una casa in Via Formentini e la sera stessa, uscito a fare due passi, sbucai in Via Brera. Al bar Jamaica conobbi per destino Ugo Mulas, Roberto Crippa, Gianni Dova, Milena Milani e il suo compagno Carlo Cardazzo della Galleria del Naviglio, che è stato il mio primo gallerista e con cui ho fatto una prima mostra a Venezia alla Galleria del Cavallino, poi sono arrivati Fontana, Dino Buzzati e Raffaele Carrieri e si è fatta notte. E così fu l’inizio.
"L’artista non si deve mai rendere conto di cosa fa, deve in ogni caso assumersi la responsabilità che anche il minimo segno debba avere un senso, altrimenti è meglio non continuare".
Com’era l’ambiente culturale nel quale eri arrivato?
Milano era molto romantica, molto allettante sotto l’aspetto delle possibilità che c’erano, soprattutto per i giovani artisti. Era una cosa meravigliosa. Eri incentivato dalla mattina alla sera da tutto. La Milano di allora era secondo me ciò che era stata Parigi cinquant’anni prima per Picasso e Giacometti, un luogo dove avevi la possibilità di fare, di importi immediatamente. Tant’è vero che io dopo dieci mesi ero entrato nel giro più importante, ma in fondo già dal primo mese. C’era un movimento culturale, che non c’è più da oltre vent’anni. Una novità assoluta per un artista che arriva dal Sud, un fermento continuo.
Quali sono i tuoi Maestri di riferimento, che sono stati fondamentali per la tua ricerca?
Quando ero a Lecce, i Maestri che mi entusiasmavano allora erano Cosmè Tura, per i corpi quasi ferrigni che ha realizzato, Mantegna, il Sassetta, e poi Emil Nolde e Rufino Tamayo, per quelle figure con i rossi e con i neri. Picasso è arrivato dopo, era poliedrico. Sono stato molto amico di Piero Manzoni, con il quale aiutavo spesso Fontana a preparare i fondi delle tele. Ricordo anche con nostalgia i miei più importanti galleristi, a partire da Carlo e Renato Cardazzo, poi Giorgio Marconi, in seguito Dino Tega, Marco Conte e poi Antonio Sapone di Nizza, con i quali ho avuto rapporti contrattuali che mi hanno fatto conoscere un po’ dappertutto. Antonio Sapone, che assieme ad André Verdet, mi organizzò mostre a Saint-Paul-de-Vence, ad Antibes e infine in Giappone con Picasso e le Avanguardie Russe. Dal 2013 si occupa del mio lavoro la galleria Kunst im West di Ursula Koller-Lehner di Zurigo.
Abbiamo parlato degli inizi di questo percorso lungo e ricco di riconoscimenti, ma quali sono state le tappa di svolta, dei punti fondamentali nel tuo modo di fare arte?
Diciamo che non mi sono mai prefisso di andare avanti nello stesso modo per tutta la vita. Se hai avuto quello che io chiamo un dono, questo dono il più delle volte, direi quasi tutti i giorni, ti stravolge con infiniti tranelli, sentendo a un certo punto che la mano automaticamente si ammorbidisce o si rinforza per fare delle cose in un certo modo. Nel corso del tempo ho affrontato in vari modi periodi differenti. L’artista non si deve mai rendere conto di cosa fa, deve in ogni caso assumersi la responsabilità che anche il minimo segno debba avere un senso, altrimenti è meglio non continuare.
Nonostante tu viva a Milano da anni, in questa metropoli lontana dal sole e dal mare, hai conservato nella tua pittura tutto il calore e tutta l’energia della tua terra di origine: la Puglia. I colori vengono anche da lì.
I colori vengono da lì, però sono il più delle volte forzati proprio da un desiderio di dare più luce alla propria opera fino a renderla incandescente. Per me il Sud esiste sempre, ma mi ci sono allontanato volontariamente proprio per motivi artistici. Le radici sono le stesse, ma l’origine serve fino a un certo punto.
"Sai qual è la lotta? Che tu devi essere sempre alla fine vincitore, non farti mai sopraffare, da nulla. Dal colore, dalla materia, dalle dimensioni".
In tanti, tantissimi, tuoi lavori sono presenti la figura femminile e l’elemento naturale, sono quasi delle costanti. Cosa significano per te?
La donna è l’elemento naturale, sono la stessa cosa. Mi hai fatto una domanda alla quale sembra rispondere Pierre Restany nel 2001: “Che cosa può superare l’intensità decorativa degli alberi e delle foreste se non i nudi: il corpo della donna al posto del monumentale tronco d’albero. Il pensiero mitico e leggendario dell’innesto umano-vegetale ha già attraversato parecchie volte la fertile mente di Ercole Pignatelli. Penso a opere del tipo ‘Nudo come pianta’ (1997) o ‘Nudo come bosco’ (gennaio 2000). […] L’innesto umano-vegetale proietterà una volta per tutte l’esaltazione decorativa di Pignatelli fuori dalla storia nel cuore perenne della leggenda”. Anche nell’immagine di copertina dell’autobiografia ci saranno proprio questi due elementi: donna e natura.
Durante una precedente intervista che mi hai rilasciato nel 2015 in occasione del progetto “Le fatiche di Ercole” alla Triennale di Milano, quando hai dipinto una tela di centoventi metri quadrati all’interno di un ring ideato da Fabio Novembre, mi hai detto che il designer ti ha definito un lottatore. Lottatore nella vita e nell’arte.
Sai qual è la lotta? Che tu devi essere sempre alla fine vincitore, non farti mai sopraffare, da nulla. Dal colore, dalla materia, dalle dimensioni. Quando nel 2011 a Palazzo Lombardia ho realizzato un’opera di centocinquanta metri, alla fine ho detto di non essermi accorto di aver lavorato quattro mesi e ho chiesto se ci fosse qualche altra cosa da fare. La stessa cosa nel 2015 alla Triennale: Fabio Novembre pensava che non ce l’avrei fatta in ventiquattro giorni, poi, quando mi ha visto lavorare, ha detto “ehi calma, vai adagio, se no finisci prima”. Io trovo che sia insita in me questa cosa, in effetti ho dentro di me questa sensazione paradossale. Ho ottantacinque anni, ma non me li sento. Quando sto parlando di cose che mi interessano, quando sto facendo una cosa che mi riguarda, allora divento un ragazzo. Posso diventare un bambino alla maniera di Joan Miró, che a ottant’anni sembrava ancora correre dietro a un cerchio, ed è così che l’artista rimane perennemente fanciullo, perché è la creatività che ti porta a questo tipo di comportamento.
Tre figli artisti, Daniele, Luca e Francesco: una famiglia di artisti, di cui sei capostipite e punto di riferimento. Qual è il tuo rapporto con l’arte dei tuoi figli?
Abbiamo constatato proprio in questi giorni che potremmo esporre in una collettiva: non siamo solo padre e figlio, non sono solo fratelli, siamo diversi. Abbiamo quattro temperamenti completamente differenti, ma ci stimiamo talmente tanto e riusciamo a essere obiettivi e di una grande lealtà soprattutto nel lavoro. Trovo che sia per me importantissimo questo connubio con la mia famiglia, con i miei figli, è una cosa meravigliosa, e ce l’ho anche con i nipoti.
Per concludere, dopo aver parlato del passato e del presente, ti faccio una domanda sul futuro. Quali sono i progetti che hai in mente o che vorresti realizzare, anche impossibili, con l’energia inesauribile che ti contraddistingue?
Spero di poter avere ancora l’estro che mi ha sempre dato una mano e avere la voglia che ho sempre avuto di rinnovarmi. Ad esempio, vedo che con grande facilità oggi posso tornare su certi dipinti e rinnovarli. Se ti devo dire con sincerità quali sono i miei progetti, la risposta è che io non ho progetti, perché il progetto nasce giorno per giorno.
L'intervista a Ercole Pignatelli si è svolta presso il suo studio di Milano mercoledì 7 febbraio 2020.
Le immagini che accompagnano il testo sono state scattate da Vittorio Schieroni il giorno dell’intervista.
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