MILANO. In occasione della recente ristampa per la casa editrice Piero Manni del saggio "Arte e cultura materiale in Occidente", ho il piacere di rivolgermi al suo autore, Renato Barilli (Bologna, 1935), uno tra i massimi critici d'arte italiani, docente emerito all'Università di Bologna e artista, per affrontare insieme il lungo cammino dall'arte occidentale dal passato alla contemporaneità.
Nella foto: Renato Barilli in un autoritratto (immagine gentilmente fornita dall'Autore)
Intervista di Vittorio Schieroni
Direttore ARTSTART
Vittorio Schieroni: Il saggio "Arte e cultura materiale in Occidente" ripercorre la storia dell'arte dall'arcaismo alle Avanguardie storiche. Nell'introduzione afferma di considerare questo volume la sua "opera principale in materia di storia dell'arte": vorrei dare l'avvio a questa intervista approfondendo questo punto.
Renato Barilli: Il libro ora ripubblicato è per me essenziale perché vi applico appieno il metodo che mi sono costruito in tanti anni di attività critica e didattica, cioè il materialismo storico culturale o tecnologico. Intende quindi essere qualcosa di più di un semplice trattato di storia dell'arte.
L'opera si articola su millenni di storia umana e artistica, tra svolte e innovazioni. Da che punto partono le sue riflessioni?
Le svolte da me prese in considerazione non sono solo di carattere estetico o artistico, ma trovano una eco in qualche innovazione di carattere antropologico. Per esempio, comincio a partire dal VII secolo a.C. quando nel mondo greco non c'è ancora la polis, quindi nei vasi e in altre opere del tempo quasi non compare l'icona umana ma ci sono solo traiettorie geometriche, come quelle che forse tracciavano i contadino all'opera nei campi. Poi nasce la polis, e questa al centro innalza la misteriosa figura dei kouroi o kourai, in cui l'arcaismo greco è molto vicino alle fasi analoghe di tutte le civiltà mediterranee, ovvero la figura umana è delineata in modi molto sommari, e soprattutto è rigida, con braccia e gambe attaccate al busto, Ma soprattutto, non si sa bene quale fosse la finalità di queste figure, omaggi a qualche divinità, o offerte fatte a loro, anche magari col sottinteso del sacrificio per rendere il dono più accetto agli dei? Pensiamo che anche il Dio di Abramo gli aveva chiesto di sacrificare in proprio onore il figlio Isacco, poi accontentandosi di un animale. Ma i Cartaginesi pare che bruciassero i loro primogeniti dentro icone metalliche di qualche divinità, e in fondo che cosa facciano noi nella messa se non sacrificare proprio il figlio di Dio in onore del padre?
Quali possono essere considerati altri momenti di svolta che hanno caratterizzato questo lungo cammino dell'arte occidentale?
Poi via via questi kouroi rigidi hanno messo su articolazioni, hanno assunto strumenti, disco o giavellotto, e così marciamo verso la fase classica, dove i corpi vengono sempre più definiti con perfetta conoscenza dell'anatomia. Ecco quindi i capolavori della classicità greca, esempio massimo la Venere di Cnido, ma anche un po' stucchevole. Poi questa fase aurea, ma di ripiegamento entro lo spazio delimitato delle poleis, viene spazzata via da Alessandro Magno, e abbiamo la fase detta dell'Ellenismo, il cui massino capolavoro è il gruppo del Laocoonte, che corrisponde quasi a un barocco avanti lettera. Poi si passa alla romanità, che in un primo momento, fase augustea dell'Ara Pacis, cerca di riprendere la classicità greca, ma poi l'impero risente della sua grandezza, viene meno il perfetto equilibrio tra la presenza dell'uomo e la sua rappresentazione, le immagini umane si fanno via via più piccole e sommarie, si può seguire questo processo di riduzione guardando le immagini sulle colonne trionfali, da quella di Traiano alla successiva di Marco Aurelio, oppure negli archi di trionfo, c'è un processo di stilizzazione, quasi un ritorno all'arcaismo, che culmina nell'arte bizantina, statica quanto mai, con figure stilizzate, rese preziose dal manto a mosaico per compensarne l'immobilità.
Esiste una parabola alla rovescia, ovvero a ripartire dal XII-XIII secolo i Paesi centrali d'Europa riacquistano il senso delle distanze, ricreano una articolata rete viaria che trova una pronta eco nelle statue dell'epoca, che di nuovo cercano di acquisire il movimento. Sarebbe questo il cosiddetto Rinascimento, io insisto però nel far notare che questa parola non esiste in colui che pure ne dovrebbe essere il massimo garante, nel Vasari. Trovo che egli ci dice l'essenziale parlando di Cimabue, capace di abbandonare il greco, ovvero la staticità del bizantino, per riprendere il discorso in buon latino, per ridare cioè mobilità alle figure e anche una loro vicinanza al naturalismo. Naturalmente questo passaggio è caratterizzato pur sempre da progressi similari che avvengono in ambito materiale, di traffici e commerci, quindi abbiano la fase pisana, poi il dominio di Firenze, a tutto vantaggio rispetto a una Roma che nonostante il fasto di avere la sede del papato non regge il confronto con la città del giglio, quindi negli affreschi di San Francesco è il fiorentino Giotto a dominare invece del romano Cavallini.
A questo punto il mio metodo mi porta a dare il massimo risalto a McLuhan e all'invenzione di Guutenberg. Da notare che sempre McLuhan associa l'invenzione tecnologica della stampa a caratteri mobili alla concezione maturata dal nostro Alberti circa la "camera", da cui escono o entrano i raggi visivi, costituendo la piramide prospettica dominata dal punto di fuga. Tutto questo non è Rinascimento, dato che il punto di fuga, e ovviamente pure la scrittura affidata a una macchina, non esistevano nell'anitichità, e dunque parliamo dell’instaurarsi dell'età moderna. Questa lezione prospettica dell'Alberti è dura da apprendere. I nostri artisti del Quattrocento, a gara coi Fiamminghi, lo fanno in tre tappe successive, che sono le "maniere" di cui ci parla il Vasari, fino a essere tutti superati da Leonardo, con cui trionfa la maniera moderna, ovvero la conquista della lontananza e la scoperta che siamo immersi nell'atmosfera che rende sfumati i contorni. Leonardo insegna questa grande svolta sia ai veneziani, Giorgione e Tiziano, sia soprattutto a Raffaello, mentre il caso di Michelangelo sarebbe più complesso, in lui accanto a una perfetta padronanza dei canoni della modernità esisteva pure un'attrazione verso modelli antropocentrici di vecchio stampo, che ne fecero il maestro di quell'ondata di riflusso corrispondente al Manierismo. Ma la modernità si svolge nel segno di Leonardo, Tiziano, Raffaello, fino alle grandi imprese del Seicento barocco.
E per quanto riguarda tempi più recenti, moderni, la cosiddetta "contemporaneità"?
Un altro punto tipico della mia metodologia è di far notare quanto sia equivoca la nozione di contemporaneità, in sostanza omonima di modernità, altro modo di indicare i tempi presenti. Infatti nel linguaggio corrente scambiamo sempre il moderno col contemporaneo, come se questo ultimo termine non esistesse. Propongo allora di cancellarlo e di sostituirlo con quello del postmoderno, che in realtà nasce solo verso la fine del Novecento, ma può essere anticipato alla fine del Settecento e fatto corrispondere ai primi esperimenti di elettromagnetismo, dovuti fra gli altri a scienziati italiani come Galvani e Volta. Se valutata su un versante economico, la rivoluzione francese segnò soltanto la presa del potere politico da parte della classe borghese che già lo aveva, ma non si vedeva riconosciuta una tale prerogativa a livello politico.
Un percorso che, gradualmente, ci porta ai giorni nostri, dopo le grandi trasformazioni, le innovazioni, i conflitti degli ultimi secoli. Può condividere qualche riflessione riguardo il presente e il futuro?
Naturalmente anche il contemporaneo, o postmoderno che si dica, conosce le sue molte fasi, Io uso in proposito una metafora stagionale, dicendo che ci fu un'alba del contemporaneo o postmoderno con pittori quasi Fuseli, Blake, Goya, contrastata però da un ritorno in forze del naturalismo moderno culminante con la stagione dell'Impressionismo, quindi nel Novecento riparte l'elettromorfismo, anche se col Cubismo a tutta prima sembra più che altro una dipendenza dalle innovazioni meccaniche con alla testa l'automobile. Ma poi c'è la fase del secondo Novecento che culmina nella rivoluzione del '68, una specie di autunno del postmoderno, che però ha il pregio di diffondersi a macchia d'olio e di uscire dai soliti confini dell'Occidente per invade tutto il pianeta. Oggi c'è una formula che trionfa, quella di glocalismo, utile congiunzione del globalismo che abbiamo raggiunto a livello tecnologico, però con la possibilità che ogni etnia e cultura e società lo applichi a rivisitare le proprie radici, cioè i fattori locali, da qui la sintesi che, seppure in un mondo scosso da guerre e tanti altri cataclismi, ci fa sperare che nell'arte si possa procedere in modi abbastanza concordi pur nella salvaguardia di apprezzabili differenze.
Intervista rilasciata da Renato Barilli a Vittorio Schieroni nel febbraio del 2024.
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